Il regista milanese Marcello Baretta: artigiano di film spettacolari senza l’utilizzo del digitale

Continuiamo i nostri incontri con il mondo culturale milanese prendendo spunto dall’ultimo libro del regista Marcello Baretta “Il Regista Pratico”  edito da Tralerighe Libri, uscito nella primavera di quest’anno e destinato a far discutere per la teoria che presenta: la superiorità delle tecniche analogiche tradizionali rispetto al digitale nello sviluppo di un film. 

Siamo un blog milanese: come descriveresti la tua Milano?

Milano non è solo il luogo in cui sono nato: è la città che amo per la sua capacità di risorgere dai periodi bui come quello della seconda guerra mondiale, ad esempio, e per la sua propensione ai cambiamenti in tutti i campi, soprattutto quello culturale. Milano è capitale del design, dell’arte e della cultura: è ricca di spazi culturali, musei, nuove sculture e architetture firmate da archistar, monumenti che dialogano con il paesaggio circostante.  A mio parere, in una realtà così dinamica ed eclettica, sarebbe auspicabile che si creasse una nuova cinecittà milanese, uno spazio/laboratorio multifunzionale dedicato alla produzione cinematografica e non nascondo che avrei visto bene l’utilizzo degli ex spazi di Expo a Rho a questo scopo.

Sei laureato allo IULM in TV, Cinema e Nuovi Media: a quali maestri ti sei ispirato?

Figlio degli anni 80, sono stato influenzato da esponenti di primo piano del cinema pop americano come George Lucas, Steven Spielberg, Richard Donner e Robert Zemekis.  Mi sono ispirato al pionierismo, allo spirito innovativo di questi grandi registi che, con mezzi tecnici decisamente limitati rispetto a quelli di cui disponiamo oggi, hanno saputo creare dei capolavori.  Loro sono per me uno stimolo continuo ad andare oltre, a cercare sempre soluzioni innovative nel mio lavoro.

Come definiresti il ruolo del regista?

Esistono registi di tipo diverso: ci sono i registi-fotografi,  che quando sono sul set danno la priorità al posizionamento delle luci, ai tagli di luce e d’ombra, alla fotografia in generale del film.  I registi-attori come Woody Allen che sono focalizzati sullo svolgimento dell’azione sul set, sulle interpretazioni emotive degli attori, sulla recitazione. Ci sono i registi-costumisti come Walt Disney che caratterizzano i ruoli tramite la scelta del colore del vestito del personaggio. E poi c’è il regista pratico che, come me, sceglie di raccontare storie di fantasia impiegando elementi reali e fisici anziché generati al computer, usando quindi l’arte cinematografica per creare opere che restino nel tempo e diano allo spettatore un senso di realtà.

Nel 2014 hai vinto il premio come miglior cortometraggio al Sandpoint Film Festival (Idaho, USA) con “The Craftsman”: com’è nata quest’opera?

The Craftsman”-  girato a Milano ma con l’intento di dare un’ambientazione universale – è stato il primo cortometraggio di genere steampunk girato in Italia (Link The Craftsman: https://www.youtube.com/watch?v=_GLi-YYomPE&t=20s ).  Lo steampunk é un mondo immaginario in cui si fonde la tecnologia moderna con una storia accaduta nel passato, in particolare nel periodo della rivoluzione industriale.

Ho voluto uscire dai soliti generi come western, action, thriller creando un linguaggio nuovo, confezionando costumi e scenografie che rispondessero al genere steampunk.  Senza spoilerare troppo, possiamo dire che l’alternanza dei vari stati d’animo del protagonista – creatività,  relax, depressione, rivalsa – passano tramite il teatrino delle ombre, un espediente originale che ho utilizzato per narrare una storia già accaduta nel passato rendendola attuale.

Inoltre la colonna sonora originale che accompagna lo sviluppo della storia sottolinea le varie fasi emotive del protagonista, un giovane inventore innamorato della bella fanciulla corteggiata da un nobile e anziano pretendente.  Il merito dell’artigiano – che crea fisicamente la sua opera – un vaso di fiori di rame con movimento meccanico attivato con l’energia solare – da regalare all’amata per conquistare il suo amore mettendo tutto se stesso, la sua passione e la sua creatività – è il tema principale di questo cortometraggio di 6 minuti.

 

 

Il tema dell’artigiano creativo ricorre anche nel tuo ultimo libro “Il Regista Pratico”, saggio collegato al brand cinematografico GoPractical che hai fondato. Che cosa significa essere un  “regista pratico” ?

Il “Regista Pratico” è un neologismo, un modo per definire la mia filosofia professionale. Sono un regista che ha deciso di rinunciare al digitale – ove possibile – andando alla ricerca di alternative analogiche. Respingo il concetto di prequel, sequel, reboot, remake perché voglio inventare nuove tecniche e raccontare nuove storie con l’intento di non standardizzare le produzioni. Un esempio? Osservando con attenzione la resa visiva di un salto della Vedova Nera, personaggio della Marvel, mi sono accorto che questa azione – spesso realizzata con una controfigura digitale – aveva le stesse caratteristiche e la stessa fisicità di quello di Iron Man, di Spiderman o perfino di un dinosauro di Jurassic World. Era sempre la stessa cosa standardizzata e di conseguenza non mi suscitava più emozioni. Per questo motivo ritengo che in qualche misura si debba tornare all’artigianalità della produzione “pratica”, una produzione che nasca da un’idea originale e non duplicabile.

Io credo che lo spettatore che si trovi di fronte ad una scena d’azione non ne sia così coinvolto se capisce che quest’azione non è mai avvenuta nella realtà e che è invece il prodotto di un lavoro al computer. Prendiamo ad esempio un funambolo che gira una scena di attraversamento di due palazzi su di una corda. Secondo me se la scena è girata dal vero, l’attore porta sul suo volto i segni della preoccupazione/concentrazione reale che trasmettono un insieme di sentimenti allo spettatore. Non si ottiene lo stesso risultato se lo spettatore assiste a una scena disegnata da uno o più programmatori. Quindi nella finzione girata dal vivo c’è comunque una partecipazione emotiva da parte del protagonista che a mio avviso non eguaglia quasi mai la simulazione del disegno digitale.

 Qual è l’obiettivo del brand “Go Practical”?

L’intento del brand Go Practical” è triplice: recuperare tutte le abilità artigianali che rischiano di andare perdute, valorizzare il lato umano del lavoro di squadra sul set ed infine insegnare le tecniche artistiche ad una nuova generazione di maestranze artigianali.

Mi sono proposto di riunire un gruppo di artisti e artigiani – scenografi, carpentieri, falegnami, decoratori, sarti, ecc. – le cui competenze non sono più così necessarie nel mondo digitale – che condividano la mia visione di cinema e con i quali lavorare a nuove produzioni cinematografiche  impiegando gli strumenti e le tecniche tradizionali, come ad esempio lo sviluppo della animatronica (produzione di personaggi meccanici) o la realizzazione di repliche in scala di scenografie.

Il secondo obiettivo – valorizzare il lato umano delle professionalità tramite la creazione di team di professionisti che operano fisicamente sul set – nasce dalla necessità di contrastare l’uso massiccio della digitalizzazione nei rapporti umani – canali social, riunioni a distanza, solo per citarne un paio -per favorire lo scambio di opinioni tre persone fisiche e l’unione di eccellenze che lavorino a uno scopo comune, possibilmente nello stesso luogo e nello stesso momento.

Naturalmente per non disperdere questo immenso patrimonio umano e artistico, occorre a mio avviso, creare dei corsi di apprendistato per aspiranti giovani artisti e artigiani che vogliano imparare il mestiere sul campo, affiancando ore di lezione a ore di pratica sul set o in laboratorio. E’ importante offrire un supporto didattico ai comuni, alle scuole, alle accademie per aiutare i giovani cineasti a scoprire le proprie potenzialità creative nel mondo analogico.

Puoi farci un esempio di insegnamento tramite un’attività pratica?

Nel 2019 ho effettuato un esperimento sociale a scopo didattico mirato sia a spiegare cosa sia l’animatronica sia a dimostrare l’effetto emotivo degli effetti speciali analogici su una generazione cresciuta invece con il digitale.  (Link: https://fb.watch/gl4fYQMQ2W/ ) L’esperimento ha visto protagonisti un gruppo di bambini delle scuole elementari, dai 6 agli 11 anni, nativi digitali – alcuni dei quali non avevano mai assistito ad una proiezione in un cinema. Dopo aver assistito a una proiezione del film E.T. l’extraterrestre in una sala cinematografica, i giovani spettatori sono stati invitati a spostarsi dietro lo schermo dove avevamo preparato una riproduzione meccanica della testa di E.T. montata su di una cassa.

 

 

Questa testa, la cui meccanica è stata progettata e realizzata da me nell’arco di alcuni anni partendo dalla scultura di plastilina divenuta poi calco e successivamente stampo, poteva esprimere molteplici espressioni/stati d’animo grazie ai comandi dati da un gruppo di una decina di tecnici nascosti alla vista dei bambini tramite un fascio di cavi lasciati a vista alla base del collo di ET affinché i bambini potessero comprendere che si trattava di un oggetto creato dall’uomo.

Il risultato che abbiamo ottenuto è stato sorprendente: pur rendendosi conto di essere di fronte ad una creatura meccanica, i bambini hanno mostrato di provare un’ampia gamma di sentimenti perché si è attivata in loro la “sospensione di incredulità”: la discrepanza che si crea nel nostro cervello tra percezione – l’immagine che vediamo – e cognizione – la coscienza della finzione dell’immagine percepita. Utilizzando questo semplice esperimento siamo riusciti a far capire ai bambini la differenza tra il concetto di reale e quello di finzione e a suscitare un interesse in loro tramite un’attività pratica.

Che cos’è per te il cinema?

Il cinema secondo me non è solo raccontare una storia ma è soprattutto un mezzo per sognare e far sognare il pubblico. Il cinema è l’unica arte che permette di trasformare una storia di finzione in realtà. Mentre ad esempio nel caso di un ritratto il pittore esegue solo una rappresentazione del soggetto, nel cinema analogico l’immagine che appare sullo schermo non è una rappresentazione ma è proprio il soggetto reale, la cui immagine è rimasta impressa sulla pellicola. Se vedo un attore in carne ed ossa vedo una realtà, una presentazione, non una sua rappresentazione, come invece accade nel caso di un personaggio creato digitalmente. E questo, per me, suscita sensazioni e sentimenti molto più forti rispetto a quelli che scaturirebbero dalla stessa storia narrata tramite tecnologie digitali e virtuali.

Testo: Emanuela Ornago

Foto: Marcello Baretta

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