Milano in mano
Milano in Mano è il libro che più di altri racchiude e rappresenta i miei sentimenti per Milano. Sentimenti contrastanti che legano l’amore per una città al disagio di vederla cambiare, e, nello stesso tempo, capire che questo cambiamento va di pari passo al tuo invecchiamento. Insomma, rischio di ritrovarmi come il vecchio di Isidora – una delle città invisibili di Calvino – per il quale la città sognata è già un ricordo.
Una parte di questa affezione deriva dalla dedica dei miei genitori “A Massimo, nell’occasione del suo nono genetliaco perché possa meglio conoscere la sua città e la di lei storia e si senta stimolato ad approfondirne virtù e difetti della sua gente…” l’anno è il 1966. Ma “Milano in mano” è un classico sopravvissuto sino a oggi e giunto, nel 2018, alla sua ottava edizione (qui il link Amazon ma è disponibile in tutte le catene di vendita, e vi consigliamo caldamente di cercarlo in libreria).

Le colonne di San Lorenzo, con le auto parcheggiate all’interno
Lì dentro scoprivo per la prima volta una Milano in bianco nero raccontata magistralmente da Guido Lopez e Silvestro Severgnini. Un reticolo di vie e di storie con didascalie oggi decisamente naif a illustrare immagini che già allora strizzavano l’occhio al passato. Ad esempio “Un tipico crocicchio della vecchia Milano, le cinque vie: via del Bocchetto, del Bollo, di Santa Marta, di Santa Maria Fulcorina, di Santa Maria Podone. Il piccone ha già demolito queste case?”
Oppure risuonanti di orgoglio produttivistico meneghino: “La Fiera Campionaria, massima manifestazione annuale dell’industria e del commercio nel mondo.”
Di pari passo, per me che abitavo praticamente a due passi da lì, immagini di una fiera di Senigallia che riportano a un tempo in cui il “vintage” era semplicemente l’usato.
Oggi aprire queste pagine vuol dire fare inevitabilmente un tuffo nel passato e respirare, insieme all’aria stantia di carta vecchia, un’atmosfera cittadina quasi interamente perduta. Non che questo sia necessariamente un male. Chi per esempio rimpiangerebbe gli abbaini con bagno in comune e nessuna forma di riscaldamento ancora in uso, in zone centralissime, almeno sino alla fine degli anni ’80? Oppure come ripensare oggi all’opera di tombinatura dell’Olona, avvenuta sotto i miei occhi nel continuo andare e tornare del tram numero 8 con cui mi recavo a trovare nonna e zii al Giambellino?
Sono tratti di una forma di nostalgia personale. Per me lo fu in particolare l’Ambrosiana, dove mio nonno era custode e dove il Cardinal Montini era di casa prima di diventare Papa Paolo VI (ancora oggi quando passo le emozioni sono forti, veicolate da particolari per quasi tutti insignificanti: la bottiglieria e il negozio di numismatica in via Cardinale Federico, il portone sul retro dell’Ambrosiana, il cortile interno le poche volte che si riesce a entrare, le panche all’ingresso con i riccioli lignei che non sono mai cambiate). Ricordi scritti nel libro profondo di ognuno e che hanno una dimensione individuale.
Ma di pari passo Milano è cambiata, e abbiamo assistito a questo cambiamento, rinunciando via via ai suoi ceti popolari, alle sue cantine, al suo tessuto commerciale, depauperando la sua anima e avviandosi ad assomigliare, sempre più, a una città del mondo, uno di quei non-luoghi tipo aeroporto e centro commerciale in cui tutto assomiglia a tutto ma nulla ricorda nulla.
Basti pensare alla riqualificazione della Darsena, operazione giusta e importante sul piano urbanistico, ma avvenuta senza alcun rispetto per i segnali precedenti che riportavano alla Milano porto commerciale con le sue sabbiere e il suo mondo popolare che andava da Porta Cicca alla stazione di Porta Genova. Oggi tutto fagocitato e triturato in un senso solo commerciale e consumistico. Oppure pensiamo all’eccellenza del grattacielo di Milano, il Pirellone, che aveva saputo inventare una sobrietà meneghina anche nella novità edilizia e che oggi si trova surclassato e circondato di torri a specchio come se ne trovano ovunque con pendenze più o meno impressionanti ma tutte al di là di quello spirito della città che sarebbe stato utile preservare.

Darsena di Milano, vista da sotto il ponte, foto Massimo Molteni 1977

Darsena di Milano: le gru e le sabbiere, foto Massimo Molteni 1977

Darsena di Milano: i barconi adibiti al trasporto delle merci e, nella fase finale, soprattutto della sabbia, foto Massimo Molteni 1977
Non che Milano, nei secoli, di sventramenti e rifacimenti non ne abbia vissuti e subiti. Questo nostro spazio serve anche a raccontarveli e la visita di MAQ al Bottonuto, qualche anno fa, testimoniò proprio quanto le città si rinnovino tradendo sé stesse e sedimentando nel tempo una propria narrazione. Oggi, però, per la prima volta in maniera così pervasiva, la narrazione arriva dall’esterno. Vedremo se Milano reggerà l’impatto.