Coronavirus: un male che arriva da lontano ma che ci tocca da vicino

Tanto tuonò che piovve! Così riassumerei una serie di osservazioni e riflessioni che ho in animo di porgervi.

Cos’è questa tanto temuta pandemia: niente di più che un’influenza, ma con un forte tasso di contagio, bassa mortalità e in mancanza di un vaccino disponibile ai più, incute una gran paura! Ma mi fermo qui, sul fronte clinico, poiché non sono un medico.

Vorrei con voi riflettere invece sulle conseguenze sociali di questo tanto vituperato flagello che sta per abbattersi sul Belpaese.

Iniziamo col dire che è la terza ondata di strane cariche batteriologiche che dall’inizio del nuovo millennio giungono dalla Cina: in ordine Sars, Aviaria, e Coronavirus. I più malevoli ci riferiscono che sono sfuggite da un laboratorio di Wuhan dove si fanno esperimenti su esseri viventi. Ma è l’effetto che ora ci interessa, cioè il fatto che è sempre il frutto di una trasmigrazione da animale a uomo. Voglio essere un po’ più prudente: dobbiamo risalire alle pratiche di macellazione, alla dieta e al tipo di alimentazione a disposizione della popolazione cinese, soprattutto di quella stanziata nelle province interne. E’ chiaro che alla base di tutto c’è una scarsa attenzione all’igiene e alla mancanza di protocolli sanitari. Ma delle usanze e delle tradizioni culinarie dei cinesi ci importerebbe assai poco se non ci fosse la globalizzazione e la Cina non fosse la seconda economia mondiale (pesa ormai circa il 20%), con  esportazioni e produzioni che arrivano in tutti gli angoli del globo.

Allora mi viene da dire che qualche responsabilità il gigante rosso (che peraltro di comunista non ha più nulla) forse ce l’ha, quanto meno per omesso controllo. E purtroppo l’abbiamo anche noi occidentali, dal momento che è stato ammesso nel WTO, nonostante il mancato rispetto dei diritti umani e delle più fondamentali tutele dei lavoratori, oltre ad essere, da decenni, terra di grandi produzioni e delocalizzazioni industriali a basso costo, di cui conosciamo il portato etico, in un contesto di globalizzazione e standardizzazioni di merci, idee e pensieri.

Voi direte ma cosa c’entra in tutto ciò Milano?

Qualcuno di voi, senza falsi moralismi, ha già capito. Siamo la città più cosmopolita d’Italia ed è inevitabile che alcuni fenomeni internazionali atterrerino prima che altrove nella “Grande Milano” (uso il termine nel contesto geografico che comprende metà della pianura padana e parte di quelli confinali piemontesi, da dove ogni mattina si riversano centinaia di migliaia di persone). Qui si stanno costruendo o svettano già i grattacieli, sedi delle multinazionali che hanno contatti in tutto il mondo, i cui dipendenti ogni settimana prendono voli per gli Stati Uniti, l’Asia e il Nord Europa. Insomma un veicolo di idee, conoscenze, pratiche, merci e anche alcuni effetti collaterali che non possono influenzare anche il nostro vivere quotidiano. Così come fu nel Medioevo e nel Rinascimento per i mercanti lombardi.

I grattacieli di Gae Aulenti che svettano sul centro storico (foto di Robert Ribaudo)

Qui ha sede quella finanza internazionale, che di etico purtroppo non ha più nulla, i cui profitti ormai sono fuori misura e i cui uomini vivono, lavorano e guadagnano in maniera del tutto sproporzionata ai loro meriti (o de-meriti). Tanto che a volte viene da chiederci: ma viviamo nella stessa città, siamo sicuri di avere la stessa visione nel costruire un modello di sviluppo che tenda al progresso umano? Sta sotto i nostri occhi il quadro che ci mostra una situazione per cui gli uomini e le donne impegnati nel mondo del lavoro hanno salari inversamente proporzionali alla loro utilità sociale. Allora viene da chiedersi:

A tali speculazioni corrispondono pari responsabilità sociali?

Direi di sì; perchè il territorio avrebbe diritto a beneficiare almeno di parte di quella ricchezza prodotta. Soprattutto se l’evasione fiscale sottrae e drena capitali alla comunità (mi riferisco ai giganti del web e non solo, ben radicati in città ad esempio); quando per attirarli si costruiscono intere porzioni di città, totalmente de-contestualizzate dal nostro modo di vivere, e spesso totalmente in contrasto col più vicino tessuto di antica formazione su cui esercitano la loro invasività visiva e culturale; quando l’ascensore sociale è fermo poiché le imprese più redditizie o la costruzione degli stessi edifici sono l’occasione speculativa solo per pochi; quando le politiche di mobilità criminalizzano il più povero che ha l’auto più vecchia, mentre il più abbiente è libero di inquinare con un’auto di ultima generazione, solo con una sovrattassa sul bollo; quando l’inquinamento dell’aria viene vissuto come un effetto collaterale della maggiore attrattività economica che la nostra città deve necessariamente sopportare.

Modello del coronavirus isolato al microscopio

Modello del coronavirus isolato e ingrandito milioni di volte

Insomma il Coronavirus è solo il sintomo di un malessere globalizzato, che è figlio di un modello consumistico dalle forti ricadute sociali, che oggi si manifesta con un raffreddore, ma che già domani brucerà il pianeta, perché il mondo ha già la febbre e Milano è già contagiata.

Mi sono rifugiato da anni nella” Milano che non si sa”, per evadere da questi malanni, ma questa epidemia mi ha dato l’occasione per esprimere tutto il mio rincrescimento nel vedere una città in cui sono praticamente nato, cresciuto e in cui non mi riconosco più!

E come direbbe la Gabanelli alla fine dei suoi “Report”, adesso le buone notizie: vi alleghiamo una serie di facili pratiche che è consigliabile seguire, poiché al di là dell’educazione alla pulizia, oggi più che mai l’igiene è importante.

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