Il 17 maggio sarà la giornata internazionale contro l’omofobia. Perchè si celebra e perché è importante farlo.
Il 17 maggio si celebra in oltre 130 paesi del mondo la giornata internazionale contro omofobia, bifobia e transfobia. L’evento, noto con l’acronimo di IDAHOBIT (International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia), è riconosciuto da numerosi paesi e istituzioni internazionali, tra cui l’Unione Europea. Si svolge in questa specifica data per un motivo ben preciso: un richiamo al 17 maggio del 1990, giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. In questo giorno si svolgeranno mobilitazioni, sit-in e incontri con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul riconoscimento e la difesa dei diritti umani, indipendentemente dall’orientamento sessuale, identità o espressione di genere. Alcuni si chiedono quale sia il senso di questa giornata e perché vada celebrata. Vi spiego perché, dandovene le ragioni, richiamandomi anche ad alcune esperienze vissute in prima persona, perché la vita, in fondo, chiarisce meglio di mille parole.
OMOSESSUALITA’ COME MALATTIA: LO PENSANO ANCORA IN MOLTI
Sono ancora in molti a vedere nell’omosessualità una malattia, un disordine da dover curare. A ricordarcelo, solo poco tempo fa è uscito nelle sale cinematografiche “Boy Erased”, un film con interpreti d’eccezione, quali Russel Crowe, Nicole Kidman, e soprattutto il bravissimo Lucas Hedges, nei panni di Jared Eamons, un adolescente dell’Arkansas che viene mandato dai genitori, cristiani integralisti, in un “centro di conversione“, proprio per “guarirlo” dall’omosessualità. Le pratiche di cosiddetta conversione sono un fenomeno tutt’altro che superato, o relegato in un passato lontano. Ancor oggi esse vengono proposte da diversi movimenti religiosi, tra cui diversi di matrice “cristiana”. Non posso fare a meno di virgolettare, visto che riferire tali movimenti alla predicazione del Cristo – parlo da cristiano – mi sembra davvero paradossale. Ciò non accade solo lontano da noi, quasi questi fenomeni fossero una peculiarità di un’America profonda e bigotta, in aree quali la famosa Bible Belt.
ANCHE A CASA NOSTRA. VICINO A NOI.
Queste inquietanti realtà sono presenti anche qui da noi, in Italia, come ad esempio nel caso del Gruppo Lot, nel bresciano, diretto da sedicenti “leader”, al cui vertice sta Luca di Tolve, niente di meno che il “Luca era gay” della grottesca canzone di Povia, presentata a Sanremo nel 2009. Ci si prefigge proprio la “guarigione” di gay e lesbiche dall’omosessualità che – come abbiamo detto – la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha dichiarato in ogni modo non essere una malattia. Tra riti ripetitivi, psicologia spicciola, tutt’altro che scientificamente fondata, e continui richiami all’opera di Satana, il fine è di inchiodare nella mente dei partecipanti ai seminari organizzati dall’associazione, il concetto che si è sbagliati, che si è disordinati e portatori di male operato dal “Maligno”.
IL PRIMO RICORDO: IL GURU DALL’AMERICA E GLI OCCHI DI UN RAGAZZO
Nella mia vita penso di averne passate davvero molte e purtroppo mi è capitato di incrociare sul mio cammino anche persone che hanno giudicato la mia omosessualità come un disturbo, un errore, e addirittura un’opera del demonio. Giudizi lanciati come pietre. Esperienze che non posso dimenticare, come essere umano, come gay, come cristiano. Parole ascoltate e volti impressi nei ricordi, che hanno inciso come una cicatrice nel mio passato. Una ferita dell’anima che non posso e non voglio dimenticare. Grazie a Dio (è proprio il caso di dirlo!), ho incrociato questi personaggi solo in modo tangenziale e sono dotato di un carattere abbastanza forte, così da saper fronteggiare e respingere al mittente la cattiveria gratuita del prossimo. Non tutti però siamo uguali. Non tutti siamo forti.
Nel 2012, su invito di una chiesa evangelica, vengo a sapere dell’arrivo a Milano, direttamente dall’America, di Richard Cohen, che si dichiara ex-gay ed è strenuo propugnatore delle teorie riparative. Decido di andare all’incontro che lo vede protagonista perché voglio capire meglio cosa avvenga durante questo tipo di eventi. Ricordo ancora una sala gremita di gente, tra cui alcuni genitori di figli gay. D’altra parte, nulla di più semplice, per avviare un “business” (perché di questo si tratta), che fare leva sulla mancata accettazione da parte dei genitori. Questo rifiuto da parte di chi ti ha dato la vita, è per molti ragazzi motivo di grandissime sofferenze e per alcuni è il solo motivo per il quale si presentano a incontri come questo.
Ma torniamo a Cohen. Il guru viene presentato dal “capo”: così viene chiamata la pastora che gestisce la chiesa. Una definizione che ben si adatta a una comunità che è di fatto una vera e propria azienda da lei gestita. Ed ecco che quindi parte l’arringa dell’americano, personaggio che non ha alcun titolo scientifico. Ha conseguito un master in counseling psicologico presso l’Antioch University, per essere poi prontamente espulso dall’ American Counseling Association. Le performance dello speaker assumono molto presto forme imbarazzanti, a motivo della teatralità che scade spesso in gestualità volgare, fino al limite del ributtante.
Tale teatralità – va detto – ben si inserisce nelle modalità di espressione proprie di molti predicatori e tele predicatori americani. Durante il discorso, alcuni ragazzi, discepoli del “capo”, passano per raccogliere soldi in forma di offerta. Il soldo non manca mai! Ed eccoci al termine dell’incontro. Ricordo un giovane ragazzo, circondato da alcuni membri della chiesa, quasi fosse una preda pronta ad essere sbranata. Piange, schiacciato dagli sguardi esaltati di quei “controllori della moralità”, mentre promette, quasi come un mantra, che cambierà, che guarirà, che si libererà dalle mani di Satana. Il suo corpo si ripiega sempre più su sè stesso, quasi a chiedere una pietà che non arriva. Non ho mai dimenticato quel volto e ho ancora un rimpianto: avrei dovuto afferrarlo e portalo via. Una delle cose di cui non mi posso perdonare.
IL SECONDO RICORDO: I TAGLI NELLA CARNE
Qualche anno dopo sono stato invitato a una serata di preghiera da una ragazza che conoscevo, appartenente a una chiesa di matrice pentecostale. Ci sono andato, per farle piacere. Da cristiano, in fondo, dal mio punto di vista, non si trattava di null’altro se non di una serata con altri cristiani, appartenenti ad un’altra comunità. Io sono valdese, membro di una chiesa protestante notoriamente accogliente e inclusiva e sapevo bene che la visione delle cose su determinate tematiche divide le due realtà in modo netto. Tuttavia, non si trattava di dover fare un dibattito. Era “solo” preghiera. Punto. E ci sono andato.
Entrato nella sala la preghiera comincia, la celebrazione procede fino a che non accade ciò che non mi sarei mai aspettato. All’improvviso, le circa trecento persone radunate in quel luogo, si girano tutte verso di me. Si levano alte grida, urlando che il mio essere gay (lo sapevano perché la ragazza lo aveva detto agli anziani responsabili di quela comunità) è opera di Satana (eccolo tornare ancora una volta!). Le grida diventano sempre più assurdamente violente, con la richiesta a Dio di liberarmi, di guarirmi. Mi trascinano nel mezzo della sala dicendo di abbandonarmi all’opera dello Spirito (Santo) e di cambiare vita.
E’ difficile spiegare la sensazione che si prova nel vedersi circondati e assaliti in quel modo da così tante persone. Un che di terribilmente claustrofobico. Al temine di quello spaventoso rito di invocazione, condito di minacce di dannazione eterna, il pastore della comunità mi conduce fuori dal luogo di culto tirandomi per un braccio. Dice che “non mi sono arreso“, che non mi sono dichiarato colpevole. Mi ha intimato di non presentarmi più, perché porto il male dentro di me.
Lo fisso dritto negli occhi e gli rispondo che per me va bene, e che con piacere non mi sarei più fatto vivo in quel luogo rigurgitante di odio e di disprezzo. Prima di andare però, gli dico che ho saputo che suo figlio di diciassette anni ha dichiarato la propria omosessualità. Che, sebbene non possa insegnargli come comportarsi con suo figlio, parole così forti, quali quelle rivolte a me, se indirizzate a una persona giovane e fragile, possono fare davvero male. Ho poi saputo qualche mese dopo che il figlio ha cominciato a tagliarsi su tutto il corpo, così da “far uscire il male”. Si è sentito sporco, sbagliato, e l’autolesionismo è stato il modo – terribile – che ha trovato per attirare l’attenzione di suo padre e per trovare una sua via di uscita. Anche in questo caso, è come se l’immagine delle ferite auto inferte da quel ragazzo si fossero impresse nella mia carne e nella mia anima. Non ho mai dimenticato. Non posso e non voglio dimenticare.
Servizio fotografico di Paola Paredes, che è una fotografa di Quito, che sotto copertura è entrata in una delle 200 strutture che in Ecuador «curano» gli omosessuali.
LA LOTTA CONTRO L’ODIO DEVE CONTINUARE
Odio, dolore, sofferenza. Ho voluto raccontare per farvi capire, anche attaverso una testimonianza diretta (in questo caso dal mondo religioso ma la violenza e l’odio sono purtroppo trasversali), che sensibilizzare contro l’omofobia (e bi e transfobia), è assolutamente necessario e attuale. L’omosessualità non è una malattia. Sono troppe le vite rovinate, distrutte. Anch’io sono stato marchiato dal giudizio, dallo stigma. Concludo con la frase che Mary Griffith, oggi attivista LGBT, ha pronunciato a proposito di suo figlio Bobby, suicidatosi proprio a causa della sua precedente ignoranza e bigotteria. “Bobby non è guarito perché non c’era nulla da guarire”. Non dimentichiamo mai queste parole.
Photo: la fotografia di testata e tutte le foto all’interno dell’articolo sono di @HenryOlsen_Photos
One comment, add yours.
Mario Grossi
Sono tutte foto retoriche e falsissime. La propaganda omosessualista usa dei metodi ripugnanti e allineati al pensiero unico. Vergognatevi.