… c’era un tempo in cui una tendenza virale non era digitale

Influenze a parte, oggi con il termine “virale” si intende quasi sempre un fenomeno legato alla dimensione digitale. Eppure fino a qualche tempo fa, le tendenze virali esistevano eccome e la loro diffusione passava – per così dire – di mano in mano. Chi si ricorda per esempio del Fungo Cinese?? Questa storia mi è stata raccontata nel periodo natalizio da una signora milanese, e risale agli anni Cinquanta. Una “moda” che imperversava a Milano ma anche nel resto d’Italia e che ha goduto di una vera diffusione virale. Premetto che ho dovuto integrare le informazioni ricevute con una ricerca online… Ebbene, questo Fungo Cinese prosperava se immerso in soluzioni zuccherine, soprattutto nel tè: nelle famiglie si usava metterlo in bacinelle di vetro trasparente che poi campeggiavano tronfie sui mobili portatelevisiori, su trumeaux, su mensole, insomma, in bella vista possibilmente in salotto o nel tinello. Questo fungo in realtà era composto da microrganismi che producevano crescenti masse mucillaginose, simili nell’aspetto alla madre dell’aceto. Ma qui viene il bello: l’acqua in cui i funghi proliferavano, di sgradevole colore torbido giallastro, andava continuamente rinnovata ogni quattro settimane perché… veniva bevuta in famiglia. Sì, in effetti era consigliatissima l’assunzione orale di quella soluzione! La posologia suggerita era di almeno un bel bicchiere a digiuno ogni mattina, e questa “pozione” era considerata una panacea che vantava proprietà super benefiche di tipo rigenerante, depurativo, e persino dimagrante (allucinante pensare che alcuni avessero sospeso l’assunzione di farmaci tradizionali anche per malattie importanti, credendo nel potere miracoloso di questo mefitico preparato!).

La cover de La Domenica del Corriere datata dicembre ’54 che come quella dell’Europeo della stessa epoca, testimoniavano questa moda

Ma come si legge in alcuni siti, secondo la credenza popolare l’efficacia cresceva proporzionalmente con la volontà di diffondere viralmente ad amici e parenti parte dei funghi che si erano moltiplicati, dando vita a una vera catena di Sant’Antonio. Alcune testimonianze relative alle proporzioni su scala nazionale di questa tendenza sono la copertina firmata da Walter Molino per la Domenica del Corriere del 19 dicembre 1954, quella dell’Europeo dello stesso periodo e la canzone dedicata specificamente a questo prodotto da Renato Carosone: “’Stu fungo cinese”.

https://www.youtube.com/watch?v=7ACUt0mCbQA

E dopo aver passato di mano in mano questa sostanza in modo virale, le bocce di vetro contenenti il magico toccasana, scomparvero dai salotti buoni delle famiglie…

E me lo chiami yogurt

La diffusione virale di un’altra tendenza che ricordo molto bene risale alla fine degli anni Settanta. A Milano imperversava la mania di quella che veniva definita la produzione di yogurt casalingo. Anche tra i giovanissimi. Infatti avevo ricevuto da qualche “donatore” una sorta di colonia di batteri, formati da granulini bianchi, che dovevo mettere in un recipiente di vetro pieno di latte a temperatura ambiente. Questi batteri dovevano essere lasciati a fermentare e poi essere filtrati ogni 24/48 ore, per poi essere immersi nuovamente in latte fresco: naturalmente il prodotto ottenuto dalla precedente fermentazione era il cosiddetto yogurt. Intanto i piccoli batteri crescevano felici ed era necessario passarli ad amici e parenti, proprio come il fungo cinese. Ricordo che alla fine nella mia scuola si verificò una vera e propria invasione degli ultracorpi, o meglio dei batteri… Ma era davvero yogurt? Io ricordo una bevanda acida, dal gusto ben poco gradevole, ma di nuovo, era certo che fosse molto benefico. Del resto non lo è lo yogurt? Era perfetto per il benessere dell’intestino, e per le difese immunitarie di tutto l’organismo perché ripopolava la naturale flora batterica.

Peccato che gli ultracorpi diffusi viralmente di persona in persona, solo oggi pare evidente che fossero i componenti del kefir, alimento simile allo yogurt… ma con minima gradazione alcolica e dall’apporto proteico, salino, multivitaminico. Anche in quel caso, passato di mano in mano, il trend scomparve dalle case così com’era arrivato… certo l’umanità non poteva essere sommersa da quei batteri!

La madre di tutti gli impasti

Oggi c’è un altro organismo vivo che si trasmette viralmente per poi essere nutrito e accudito. Il lievito madre meglio noto come pasta madre. Formato da batteri buoni e da un ampio numero di famiglie di lieviti diversi, è un agente lievitante naturale molto apprezzato in un’era in cui è importante avvalersi in cucina di ingredienti e materie prime di qualità e possibilmente dalla filiera controllata e naturale. Per ottenere la pasta madre si può chiedere in panetterie che producano pane a lievitazione naturale o all’associazione FDP, a cui fanno capo professionisti la cui vocazione è quella di diffondere l’uso e il consumo di tale prodotto. E poi il resto è intuibile: si “spaccia” a parenti e amici. Ma attenzione, essendo “viva” la pasta madre va rinfrescata cioè nutrita con nuova farina proprio per consentire lo sviluppo di batteri lattici e saccaromiceti, deputati a tenerla attiva. In altre parole: un lavoro quotidiano (per istruzioni trovate tutto l’occorrente online).

Lo confesso: da buona milanese sempre curiosa in tema di tendenze, ne avevo ricevuto una certa quantità da un caro amico, ma dopo averla mantenuta rinfrescandola per un po’, l’ho lasciata seccare, fermando quindi la corretta circolazione di questo ingrediente e non concorrendo ad augurare “lunga vita alla pasta madre!” come nel caso di un lievito madre di cui ho letto sul web… classe 1848!

Lasciare una traccia di sé

Come trasmettere ai posteri un gesto che possa poi diventare virale? Creare una “capsula del tempo” ovvero un contenitore con ricordi del proprio presente, che venga ritrovata decine se non centinaia di anni dopo, per offrire una testimonianza di un’epoca passata. A Mello, nella provincia di Sondrio, di recente è stata preparata una capsula del tempo affidata ai bambini del paese che avranno il compito di custodirla. La consegna è di riaprirla nel 2066.

La capsula del tempo a Mello (photo da “Il Giorno)

Un solo dubbio… visto che saranno passati poco più di cent’anni dai sopracitati anni Cinquanta, e dato che l’attitudine a diffondere in modo virale non passa di moda anzi raddoppia in ambiente digitale, chissà se i cittadini del 2066 troveranno nella capsula del tempo un gran bel Fungo Cinese. Così la storia potrà continuare…

 

N.B. La foto di copertina è tratta da www.famousfix.com

 

 

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