First Man e il cinema revisionista

A Milano e nelle altre città d’Italia è arrivata sui grandi schermi l’ultima fatica del talentuoso Damien Chazelle: “First Man”. A partire da questo film, facciamo due passi insieme non sulla luna, come il protagonista, ma sul cinema revisionista targato USA.

Fatta la consueta e doverosa premessa che vi ricorda che non è mia intenzione fare una recensione di questo nuovo film – ci sono siti e critici blasonati molto più accreditati di me, semplice cinefila incallita –, mi preme almeno fare qualche breve considerazione su “First Man” perché mi darà l’assist per allargare il discorso a una particolare tendenza cinematografica statunitense.

Tutta la verità e nient’altro

Chazelle, già celebrato per il bellissimo “Whiplash” e per il semimusical di culto “La La Land”,

fa un apprezzabile salto laterale rivelando tutta la sua versatilità, imbastendo un racconto molto, molto realistico sulle missioni nello spazio. Al centro della vicenda Neil Armstrong, l’uomo che appunto per primo mise un piede sulla luna affermando “è un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità”.

Il vero Neil Armstrong

Questo è davvero il punto. Il film, che ho potuto vedere pochi giorni fa nel rinnovato cinema Anteo, riesce efficacemente a dimostrare che dietro questo evento non si cela in realtà una vittoria, un immenso traguardo patriottico raggiunto nel nome della vocazione espansionistica (spaziale più che coloniale) di questo grande Paese, ma rivela tutta la cruda verità sugli esperimenti e relativi fallimenti che condurranno poi all’allunaggio dell’Apollo 11. Armstrong (interpretato dall’eccellente Ryan Gosling), e con lui gli americani, riesce a sopravvivere a tante speranze infrante, a prove fallimentari, ad assurde morti sul campo seguite da lutti inconsolabili. È evidente il messaggio che sottende questa vicenda: la bandiera a stelle e strisce piantata sulla luna è il segno tangibile di un’affermazione di superpotenza a tutti i costi, una sfida contro l’avversario russo, una conquista ottenuta con tanti sacrifici ma… anche una doverosa autocritica.

Al di là della retorica, a quale bisogno effettivo corrisponde questa spinta nello spazio? La luna (considerate le vite e le ingenti risorse impiegate per raggiungerla) era un obiettivo fondante per l’umanità? Addirittura nel film appare una manifestazione di afroamericani che lamentano il fatto di avere problemi concreti come l’affitto, mentre “il bianco” è sulla luna.

Un controcampo sulla realtà

In definitiva… ecco un mirabile esempio di film revisionistico all’americana. Che cosa si intende con questa definizione? Le molte ottime opere cinematografiche statunitensi che cambiano totalmente il punto di vista sul mito della conquista americana, o, ancora meglio, che fanno un autentico controcampo su conflitti e spedizioni colonialiste, rivedendole dalla prospettiva dei vinti. Un caso virtuoso è rappresentano da magnifiche pellicole che all’inizio degli anni ’70 rivoluzionarono la visione americana sulla famosa conquista del West. Il momento storico e sociale di contestazione aiutò molti registi a considerare tale fenomeno da un’ottica del tutto ribaltata, anzi, con un senso critico spietato, dando vita a una ben diversa interpretazione del rapporto tra bianchi e indiani d’America. Se nei western più classici i cosiddetti “pellerossa” rappresentavano il letale nemico degli americani, finalmente in alcuni magnifici film si faceva luce sulla crudeltà dei bianchi che in quell’era barbara avevano distrutto tribù e famiglie di nativi, senza alcuna pietà.

Un controcampo, appunto, testimoniato da opere che mettono in scena molti terribili attacchi repressivi come succede in “Piccolo grande uomo”, nell’insuperabile “Soldato Blu”, in “Un uomo chiamato cavallo”, o nel capolavoro firmato da Sydney PollackCorvo rosso non avrai il mio scalpo”. E molti altri ancora, ovviamente.

Robert Redford in “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”

Guerra alla guerra

Anche il filone dei Viet-movie ha seguito la stessa sorte. Dopo una prima produzione che proiettava sugli schermi questo scottante e assai controverso conflitto con film di guerra e d’azione, alla fine degli anni ’70 l’America prende posizione sugli effetti generati dall’azione bellica nel Vietnam. In questo caso il cinema revisionista fa una rilettura della vocazione imperialista americana raccontando le storie dei reduci alienati e del loro ben difficile reinserimento sociale, con film maestosi – di grandi autori e con giganteschi interpreti – del calibro di “Tornando a casa”, “Taxi Driver”, “Il cacciatore”… grandiose pellicole rimaste nel cuore di ogni vero cinefilo.

Arrivano con un po’ di ritardo, al cinema, le revisioni di questi schemi sociali, politici e culturali, ma cionondimeno, puntualmente arrivano. Opere che offrono un bilancio necessario e un più autentico affresco di alcuni capitoli di storia contemporanea. Il plot di First Man, proposto da un film di fattura impeccabile, ci illustra una volontà colonialista – fatalmente influenzata dalle logiche politiche dell’epoca – che supera ogni confine, anche quello del buonsenso. E dell’umana dignità, visto che forse l’Uomo non aveva fatto realmente quel profetico balzo in avanti predicato da Armstrong. E ora, controcampo su di voi, lettori: ho conosciuto e frequentato molti cinefili milanesi… cosa ne pensano, cosa ne pensate voi del cinema revisionista?

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