Il nostro viaggio, da Bangkok a Okinawa (parte 1)
«Il viaggio è fatale al pregiudizio, al bigottismo e alla ristrettezza mentale, e molti di noi ne hanno estremamente bisogno proprio per questo motivo. Le vedute ampie, sane e buone non possono essere acquisite vegetando tutta la vita in un piccolo angolo di Terra». Ecco, se dovessi descrivermi con una frase, sceglierei queste parole di Mark Twain. Viaggiare, per me, è essenziale. Come lo è respirare, mangiare, dormire. Pare ci sia una vera e propria sindrome, una “malattia del viaggio”. Si chiama Sindrome di Wonderlust, e ne è affetto chiunque non sia capace di stare fermo in un qui e ora. Chi ha il desiderio irrefrenabile di partire, di esplorare il mondo. Chi controlla ossessivamente i prezzi dei voli, chi ha sempre la valigia pronta. Sembra che, tutto questo, sia scritto nel nostro DNA. Più precisamente, nel recettore DRD4-7R, responsabile dell’amore per tutto ciò che è “esotico” e sconosciuto. Il 20% della popolazione ce l’ha. E io, di quel 20%, faccio parte.
Ogni mio viaggio comincia da Milano, e da uno dei suoi aeroporti. Che poi io li amo, gli aeroporti. Ci arrivo sempre un sacco di ore prima, con la mia scorta di libri e di riviste. Con la mia musica, e la voglia di osservare. Gli uomini incravattati e sempre al telefono. I bambini euforici. Le donne finte casual, così belle nel loro essere arruffate, senza trucco e senza messa in piega. I ragazzi innamorati, al loro primo viaggio insieme. Sul volto di tutti, un’incognita lieve. Quest’estate, in aeroporto, ci sono stata decine di volte. Ho preso 13 voli, fatto 5 scali. Ho attraversato l’Asia a partire da Bangkok, che nel mio cuore ha da sempre un posto speciale. É pazzesca, Bangkok. Puoi amarla alla follia, come me, o puoi odiarla di un odio intenso. Perché ti riempie, Bangkok. Coi suoi odori, con quel caldo che ti avvolge. Con lo smog, il disordine, la sporcizia, la povertà. Io la amo perché ti sa sorprendere, e pochi luoghi al mondo sanno farlo così. Sei lì, intento a non farti investire, ed ecco che un tempio tutto d’oro quasi ti acceca. Perché nulla, qui, ha un ordine. Ci sono gli hotel a sette stelle e le baracche, i templi e i mercati, il ricco e il povero, il tutto e il niente. Ma, soprattutto, ci sono i sorrisi della gente. Ecco perché, per me e mio marito, ogni viaggio in Asia comincia da qui. Ecco perché, a Bangkok, non facciamo mai programmi. Usciamo la mattina prestissimo, e cominciamo a camminare. Ci fermiamo a parlare con chiunque, mangiamo cibi che non sapremo più descrivere. Giochiamo con i bambini, lasciamo che gli anziani ci raccontino storie che non capiremo mai. Perché qui, l’inglese, lo parlano in pochi. Ma ti capisci comunque.
Abbiamo visto combattimenti al Lumphini Park, corso sui tuk-tuk, preso valanghe di pioggia, camminato verso templi in collina. Siamo entrati nella bottega di un falegname, navigato sulle acque del Chao Phraya. Per tre giorni, abbiamo vissuto la città come noi intendiamo il viaggio. Nessuna attrazione turistica, nessuna cena in ristoranti stellati. Abbiamo preso i loro autobus, mangiato per strada, pregato insieme a loro. E poi siamo ripartiti, con qualche sorriso in più nel cuore e un saluto a Bangkok che è un arrivederci.

Bangkok, Lumphini Park (photo by Stefano Barbiero)

Il miglior Pad Thai (tagliolini di riso saltati con uova, salsa di pesce, succo di tamarindo, peperoncino, germogli di soia, gamberetti e tofu) di tutta Bangkok

Di notte, Bangkok è pura magia

Frutta, verdura e fiori si comprano (anche) di notte

A Bangkok, i bimbi giocano per strada (photo by Stefano Barbiero)

I luoghi sacri, in città, sono a centinaia (photo by Stefano Barbiero)

In barca sul Chao Phraya (photo by Stefano Barbiero)

La bottega di un falegname (photo by Stefano Barbiero)
Lasciata Bangkok, ci dirigiamo verso la seconda tappa del nostro viaggio, l’Indonesia. Indonesia che, per noi, ha sempre fatto rima con Bali (e un giorno, prometto, ve ne parlerò). Di tutte le isole, Caraibi compresi, Bali è quella che più abbiamo amato. Così piena di natura, d’anima e di magia. Questa volta, però, la nostra meta non è il mare. Dopo una notte a Giacarta voliamo a Yogyakarta. Che se chiudo gli occhi mi sembra ancora di vederla, con la sua capacità di entrarti dentro la pelle. Tre milioni di abitanti, nel cuore dell’Isola di Giava, Yogyakarta è centro d’arte e di cultura. Ma, soprattutto, è città di rughe, di volti e di sorrisi. Io non lo so se per tutti quelli che ci arrivano è così, ma noi quattro – ché nel frattempo si erano aggiunti due dei nostri più cari amici – ce ne siamo innamorati. Così, come ci si innamora durante un colpo di fulmine. Così, come si può amare qualcosa che non é bello, ma che ti attrae. Irrimediabilmente. Perché non è bella, Yogyakarta, ma è rotta in un modo elegante. Ed è vita, allo stato puro. Yogyakarta è quel posto al mondo in cui i bambini si abbracciano tutti, gli uomini giocano a domino nel mezzo della strada. Le donne stendono panni su mura in discesa, che tu li guardi e te li immagini crollare. É quel luogo in cui mangi per terra, su coperte che sono vecchie e colorate, e stai lì, con le gambe incrociate e la testa che ha qualche domanda in meno e qualche risposta in più. É quel posto in cui gli autobus non hanno l’aria condizionata, i gradi sfiorano i quaranta, ma poi sale un ragazzino con la sua chitarra e capisci che quel calore forse viene un po’ dal cuore. É, Yogyakarta, una città che non vorresti mai lasciare. Con il caldo che ti avvolge, l’acqua che non basta mai, ma con le gambe che non si fermano, perché dietro ogni angolo – lo sai – si nasconde un’emozione. Una storia. Una persona con cui parlare. E allora ci vorresti rimanere, in quell’angolo di mondo, perché sai che lì, e solo lì, puoi imparare tanto. Sulla vita, e su di te.

Yogyakarta, baracche lungo il fiume (photo by Stefano Barbiero)

Giochi di ruolo in mezzo alla strada (photo by Stefano Barbiero)

Mezzi di trasporto tipici (photo by Stefano Barbiero)

Sorrisi (photo by Stefano Barbiero)

Yogyakarta, bambini camminano lungo la strada (photo by Stefano Barbiero)

A Yogyakarta, i panni si stendono così (photo by Stefano Barbiero)

In autobus a Yogyakarta
(To be continued…)
2 Trackbacks
[…] aveva portati fino a Yogyakarta, il nostro viaggio. Ma non lo sapevamo ancora, quali sorprese aveva in serbo per noi. Perché se è vero che […]
[…] Bangkok, lasciato in Indonesia un pezzetto di cuore, saliamo sul volo Air Asia con destinazione Tokyo. Le […]