Pokémon Go, tra follie e strane teorie
Inizialmente, io, Pokémon Go l’ho semplicemente ignorato. Nello stesso modo in cui, da sempre, ignoro ogni gioco che passa attraverso il web. Eppure, questa volta c’è qualcosa di diverso. C’è che per strada vedi orde di ragazzini alla ricerca di Pokémon. C’è che, sul marciapiede, ti scontri con uomini incravattati che paiono posseduti. C’è da ridere. O forse no.
Io i Pokémon me li ricordo bene. O meglio, me ne ricordo due o tre. Li guardavo in televisione, li vedevo sulle carte che i miei amichetti si scambiavano a scuola. Sono un po’ come il Tamagochi, per me. Ricordi d’infanzia. Questo lo credevo fino a qualche giorno fa, quando ho capito che qualcosa mi sfuggiva. L’ho capito leggendo un articolo su The Post Internazionale. Quel volto di bambino, quelle manine così piccole che reggevano un disegno di Pikachu, sono stati per me come un pugno nello stomaco. Chiedeva di essere salvato, quel bambino. E, con lui, decine di bambini siriani. É l’iniziativa dell’organo di comunicazione delle forze rivoluzionarie siriane, che su Twitter ha lanciato l’hashtag #PokemonInSyria. Bambini che chiedono di essere scovati e salvati. Come i Pokémon. Solo che per loro non è un gioco.

Uno dei piccoli protagonisti della campagna #PokémonInSyria
Ho quindi cercato di capire cosa diamine fosse Pokémon Go. E ho capito che si tratta di un’applicazione per iOS e per Android che risponde alla logica della realtà aumentata. Attivando il GPS, si visualizza una mappa con cui andare alla ricerca di Pokémon. Si scopre se ce ne sono nelle vicinanze e, se si vuole scovarli, si attiva la fotocamera. E così, in un luogo reale, magari proprio lungo la strada che percorrete ogni giorno per andare al lavoro, ecco che spunta un esserino giallo o bianco o rosa. Il telefono vibra e si illumina, e il Pokémon è catturato. Ecco, immaginatevi la scena. Camminiamo insieme. Voi col vostro smartphone, io con niente. Ad un certo punto vedete un Pokémon, proprio lì davanti a voi. Cioè, a noi. Voi lo vedete, ma lo vedete proprio. Io non vedo niente. Un po’ come se voi aveste ricevuto una grazia, come se poteste vedere i fantasmi o gli angeli o qualsiasi altra cosa, mentre io non posso vedere niente. Ripeto, fa ridere. Oppure no. Perché voi vi impegnate proprio a catturarlo quel Pokémon. Prendete la mira, lanciate una Poké Ball ed è vostro, finalmente potrete allenarlo. Perché poi è questo lo scopo, allenare i Pokémon per farli evolvere.
Ma non ho solo capito come si gioca a Pokémon Go (per capire che no, lo giuro, io non ci giocherò mai, ché già cammino per la strada cercando di rispondere alle centinaia di mail che mi arrivano ogni giorno e mi manca solo di cercare dei Pokémon). Ho scoperto anche un sacco di cose esilaranti. O forse no. Ho scoperto che a New York c’è un ragazzo che è riuscito a catturarli tutti, i Pokémon. 142, tutti quelli che sul territorio americano è possibile scovare. Ci ha messo cinquanta ore la settimana, per due settimane. Praticamente un lavoro. Che poi c’è chi, per giocarci, il lavoro l’ha lasciato sul serio. E chi è pagato per farlo. Sul sito ProntoPro.it si trova ad esempio Loris Pagano, impiegato in un fast food e ingaggiabile per scovare Pokémon al posto vostro a 15 euro l’ora. Più della mia paga oraria da giornalista assunta… Ho scoperto che ci sono persino teorie cospiratorie relative a Pokémon Go. Poiché per utilizzarlo bisogna effettuare il log in tramite Google o registrandosi direttamente alla App (non ci si può loggare con Facebook), c’è chi è convinto che il gioco sia parte della campagna che Google sta conducendo contro il social network nell’acquisizione dei dati personali degli utenti. E c’è persino chi ha tirato in ballo la CIA. Secondo il sito Infowar, l’agenzia statunitense utilizzerebbe Pokémon Go per accedere alle milioni di immagini scattate dagli smartphone di tutto il mondo, comprese quelle di luoghi – come le case – che i satelliti non possono raggiungere. Insomma, ognuno ci veda quel chi ci vuole. Io lo trovo solo un gioco. Neanche troppo divertente. Soprattutto quando quel manager in giacca e cravatta mi viene addosso sul marciapiede. Soprattutto pensando a quei bambini che, loro sì, avrebbero bisogno di essere scovati.